Il voto contro la deregulation del mercato del lavoro.

Nella propaganda elettorale, la sinistra non ha dato l’adeguato risalto  alla presentazione del Disegno di Legge di iniziativa popolare della CGIL con  quattro referendum contro il famigerato Jobs Act, del primo ministro Matteo Renzi segretario PD, simbolo della stagione dell’austerità. Il decreto sul licenziamento rappresenta il cuore (nero) della riforma del 2015, perché con esso, grazie al superamento dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, si sono indeboliti i lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore (7 marzo 2015), esponendoli al rischio della perdita del posto di lavoro e rendendoli più ricattabili e meno inclini a rivendicare i loro diritti. Indebolendo i lavoratori si è inteso indebolire anche il ruolo del sindacato in azienda: il che è ragione sufficiente per spiegare perché la Cgil ha scelto di chiamare i cittadini a esprimersi su questo quesito, tra i tanti possibili. I lavoratori delle piccole imprese (cioè con meno di 16 dipendenti) ai quali, come noto, l’art. 18 non si applica, beneficerebbero del secondo quesito referendario in materia di licenziamenti, finalizzato a modificare la storica legge del 1966 che fissa in sei mensilità il tetto massimo dell’indennizzo: un importo indecoroso, che il giudice potrà superare in caso di esito positivo del referendum.

I referendum  non risolverebbero  tutti i problemi che la lunga stagione della deregulation ha prodotto (a partire dal lavoro povero), ma costituirebbe il primo e necessario passo da fare se quella stagione si vuole realmente chiudere, abbandonando definitivamente la logica tossica dello scambio tra diritti (certi) e occupazione (incerta e sotto-tutelata) di cui il Jobs Act ha rappresentato la più coerente e convinta declinazione.