Microplastiche e pfas nei testicoli, fertilità compromessa e tumori.

Le microplastiche (dimensioni inferiori ai 5 millimetri e fino a 1 micron) sono ovunque, mari e oceani, corsi d’acqua dolce, nel suolo, nella catena alimentare e perfino nell’aria che respiriamo. Le ingeriamo, inaliamo e addirittura penetrano nel nostro organismo attraverso la cute,  possono  accumularsi in diversi organi, compreso l’apparato riproduttivo. Le microplastiche sono state trovate nel liquido follicolare ovarico (il fluido in cui crescono e maturano gli ovuli) e nella placenta delle donne in gravidanza, nello sperma, ma anche nei tessuti di cuore, cervello e altri organi. Inclusi i testicoli.

 La loro presenza nei testicoli  è stata documentata da un team di ricerca del College of Nursing dell’Università del New Mexico che, in un nuovo articolo pubblicato sulla rivista Toxicological Sciences, rileva di aver trovato microplastiche in ogni campione esaminato: una media di 122,63 microgrammi di microplastiche per grammo di tessuto testicolare canino e di 329,44 microgrammi per grammo di tessuto testicolare umano, dunque una quantità quasi tre volte superiore a quella rilevata nei cani. Ne consegue che le microplastiche influenzano  la produzione di spermatozoi, riducono la fertilità e aumentano il rischio di cancro.

“I tumori maschili sono sempre più in crescita” sottolinea  il professor Carlo Foresta, già Ordinario di Endocrinologia all’Università di Padova nel testicolo e nel liquido seminale nei soggetti esposti si possono trovare sostanze da inquinanti da Pfas. Molte forme di inquinamento sono responsabili dell’aumento dei casi di tumori ai testicoli e i dati scientifici lo dimostrano: pesticidi, derivati della plastica come ftalati, bisfenoli e soprattutto Pfas. Il tumore al testicolo è uno dei primi cinque tumori in termini di frequenza, sul totale delle neoplasie incidenti per fascia di età giovanile. Negli ultimi vent’anni (1987-2017) l’incidenza del tumore testicolare da 3,8 per cento è balzato all’8 per cento”.

Meno del 9% della plastica è riciclato.

Coca-Cola, Pepsi, Nestlé, Danone e altre 60 multinazionali sono responsabili di quasi la metà dell’inquinamento mondiale di plastica, tra cui 6 aziende che da sole rappresentano un quarto del totale. E’ ciò che emerge da un nuovo studio condotto da un team internazionale di scienziati e pubblicato sulla rivista scientifica Science Advances: si è basato sul lavoro di decine di migliaia di volontari che hanno analizzato da spiagge, parchi e fiumi quasi 2 milioni di rifiuti di plastica raccolti in 84 paesi diversi per un periodo di 5 anni.

The Coca-Cola Company ha risposto promettendo l’impegno di rendere riciclabile il 100% degli imballaggi entro il 2025, Danone e Nestlé hanno affermato di aver ridotto significativamente l’utilizzo di plastica e di sostenere programmi per la raccolta e riciclaggio di rifiuti. Sta di fatto che la produzione di plastica è raddoppiata dagli inizi del 2000 e alcuni studi mostrerebbero che solo il 9% della plastica viene effettivamente riciclato.

Plastica. Riciclo? Sì, ma molto meglio non produrla.

Le società petrolifere hanno ingannato, prima colpevolizzando i consumatori, poi promettendo che se l’usato fosse stato raccolto in appositi contenitori avrebbero risolto il problema col riciclo. In effetti gli imballaggi riciclati vengono usati come combustibile secondario nei cementifici, in alternativa al combustibile fossile, però la combustione ha un forte impatto ambientale. Vaschette e pellicole non possono sempre essere riutilizzate; e quando il riciclo funziona, la plastica prodotta ha perso 10 per cento delle sue caratteristiche, come l’elasticità, e se si ripete la perdita si rinnova (fenomeno del downcycling) e dopo un po’ non è più utilizzabile, restando plastica, e finisce il ciclo del riciclo. Non c’è più guadagno. I costi della raccolta, smistamento e riciclo sono ingenti. Meglio produrla col petrolio: i prodotti petrolchimici – plastica, fertilizzanti, imballaggi, abbigliamento, dispositivi digitali, pneumatici, apparecchiature mediche – sono i principali motori della domanda di petrolio. 

Poi ci sono, ma più costose, le bioplastiche degradabili che si ottengono da fonti rinnovabili, mais, tapioca, patate, canna da zucchero, oli vegetali, alghe eccetera. Dovrebbero essere anche “compostabili”, che vuol dire che si trasformano in compost, concime, e allora non devono assolutamente essere messi nella plasticama nella raccolta dell’umido.  

Insomma,  se non vogliamo  che nel 2050 ci sia in atmosfera più diossina da  incenerimento che ossigeno, e negli oceani più plastica che pesci e biomassa marina, bisogna ridurre l’uso della plastica. In particolare dove già ci sono valide alternative:  imballaggi inutili, come le monoporzioni di frutta e verdura, o succhi da bere, bicchierini, vaschette di affettati, surgelati, eccetera eccetera.

I legami della plastica col cancro e i difetti alla nascita.

Il ciclo di vita della plastica è insostenibile per gli impatti ecologici: riscaldamento globale e cambiamenti climatici, e sappiamo con certezza che danneggia direttamente la nostra salute.

Lo studio, condotto dall’Osservatorio Globale sulla Salute Planetaria del Boston College, in collaborazione con la Fondazione australiana Minderoo e il Centro Scientifico di Monaco ha evidenziato quanto la produzione e l’uso e lo smaltimento della plastica sarebbero responsabili di impatti sanitari di ampia portata, tra cui tumori, malattie polmonari e difetti alla nascita. Le fasce di popolazione più a rischio sono i lavoratori impiegati nelle fasi iniziali di estrazione dei combustibili fossili e di produzione dei polimeri, così come chi vive in zone adiacenti a siti di produzione e di smaltimento della plastica.

Più nel dettaglio, chi lavora nelle industrie di produzione di plastica è a maggior rischio di leucemia, linfoma, cancro al cervello, cancro al seno, mesotelioma e diminuzione della fertilità. I lavoratori addetti al riciclaggio della plastica presentano invece i tassi più elevati di malattie cardiovascolari, avvelenamento da metalli tossici, neuropatia e cancro ai polmoni. I residenti delle comunità adiacenti ai siti di produzione della plastica e di smaltimento dei rifiuti sono poi esposti a maggiori rischi legati al nascituro, come parto prematuro, basso peso alla nascita, asma e leucemia infantile.

Nuova malattia degli animali dovuta all’inquinamento: l’hanno chiamata “plasticosi”.

17 Marzo 2023 greenfuture@liberta.it

https://www.liberta.it/news/green-future/2023/03/17/nuova-malattia-degli-animali-dovuta-allinquinamento-lhanno-chiamata-plasticosi/

I composti chimici delle famiglie dei PFAS, acronimo delle sostanze perfluoroalchiliche e polifluoroalchiliche, se ne contano circa 4700, sono stati creati in laboratorio e largamente utilizzati dagli anni 50 nell’industria del packaging alimentare, nei pesticidi, nelle padelle antiaderenti, nei contenitori di cartone, nelle schiume antincendio, negli shampoo, nelle vernici, nei prodotti antimacchia e in molte altre applicazioni. Nelle materie plastiche li troviamo sotto forma di elastomeri (Fluoruro di vinilidene, Fluorurati in generale, Tetrafluoroetilene) o nei materiali polimerici (Sale di magnesio-sodio-fluoruro dell’acido silicico).

Dal punto di vista della salute gli studi scientifici internazionali hanno dimostrato che l’accumulo di queste sostanze nel corpo umano possono provocare aborti spontanei, alterare la fertilità, provocare cancro al testicolo, alla tiroide e ai reni, danni al fegato, malattie della tiroide, obesità, problemi di fertilità e cancro,   ipertensione in gravidanza, colite ulcerosa, aumento del colesterolo, alterazioni congenite del sistema nervoso o disturbi comportamentali e/o neurologici come l’Alzheimer, l’autismo o disturbi dell’attenzione e iperattività, ecc.

Il legame chimico dei Pfas, composto dal fluoro e dal carbonio, rende la molecola risultante inodore, insapore e incolore, non biodegradabile e bioaccumulabile. Queste caratteristiche permettono ai Pfas di disperdersi facilmente nelle acque, nel suolo e nell’aria, rimanendo a danneggiare l’ambiente e la salute dell’uomo a tempo indeterminato. Le piante assorbono i Pfas attraverso l’acqua di irrigazione, li cedono ai frutti e agli animali, di cui si cibano, infine agli esseri umani.

E’ stata scoperta una nuova malattia degli animali selvatici causata direttamente dall’ingestione di plastica:si chiama “plasticosi” ed è caratterizzata da una persistente infiammazione dell’apparato digerente, alterazioni dello stomaco e un ridotto assorbimento dei nutrienti. I sintomi sono descritti sul Journal of Hazardous Materials da un gruppo di ricercatori australiani in collaborazione con il Museo di storia naturale di Londra.

Emissioni particolato, lo studio: “freni e pneumatici ne producono più dello scarico”.

Secondo uno studio condotto dalla Emissions Analytics, società britannica specializzata nella misurazione delle emissioni

di Omar Abu Eideh  https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/03/26/emissioni-particolato-lo-studio-freni-e-pneumatici-ne-producono-piu-dello-scarico/5749765/

Lo studio delle microplastiche generate da pneumatici e freni, la tossicità nella respirazione, il loro passaggio lungo la catena alimentare fino al nostro cibo.

Le microplastiche degli pneumatici stanno lentamente rivelando i loro segreti.

L’abrasione degli pneumatici è una delle maggiori fonti di microplastiche nell’ambiente. Tre istituti di ricerca hanno completato la fase 1 di un progetto per studiare la bioaccessibilità di questi componenti agli organismi viventi e per valutarne la tossicità.

https://www.myscience.ch/it/news/wire/les_microplastiques_issus_des_pneus_livrent_peu_a_peu_leurs_secrets-2022-epfl

La ricerca, coordinata dal Centro svizzero di ecotossicologia applicata (Ecotox) e condotta in collaborazione con l’EPFL e l’Istituto federale di scienze e tecnologie acquatiche (Eawag), ha visto la conclusione della sua prima fase con due pubblicazioni sulla rivista Environmental Science & Technology.