Luci e ombre nel processo Pfas di Vicenza.

Sta facendo il giro del mondo. Certo (vista a colori) la sentenza Pfas di Vicenza per l’avvelenamento delle acque è storica perchè è la prima che condanna per dolo, cioè con pene pesanti, ma occorre guardarla anche un po’ in bianco e nero. Innanzitutto, sul versante delle azioni risarcitorie a favore delle Vittime. 
Potenzialmente, potevano essere 350mila nel Veneto le persone fisiche presenti come parti civili nel processo, in quanto danneggiate in varia misura dai Pfas delle aziende ex Miteni. Invece, delle 338 “parti offese” indennizzate, sono ben 138 quelle istituzionali (enti, associazioni) ma appena 200 sono le persone fisiche: “Mamme no Pfas” e altri cittadini che a partire dal 2017 hanno scoperto che il loro sangue e quello dei loro figli erano avvelenati da concentrazioni preoccupanti di Pfas. Per ognuno dei 200, la Corte ha stabilito indiscriminatamente un risarcimento forfettario di 15mila euro.
Ebbene, premesso che la salute non è mai riparabile, però diciamolo apertamente, sono addirittura irrisorie 15mila euro per le Vittime, colpite dagli effetti cancerogeni e dalle conseguenze ormonali e metaboliche (processi correlati allo sviluppo ovarico, alla produzione di estrogeni, all’ovulazione e al funzionamento fisiologico del sistema riproduttivo femminile, cioè effetti sulla fertilità e sullo sviluppo fetale; aumento di vari tipi di cancro, tra cui leucemia, cancro al seno, tiroide e al pancreas; crescita significativa della mortalità di individui affetti da neoplasie maligne dei tessuti linfatici ed ematopoietici, come milza, fegato e midollo osseo; indebolimento del sistema immunitario e della risposta alle vaccinazioni soprattutto dei bambini; sviluppo di malattie sistemiche, come il danno epatico e le malattie cardiovascolari, tra cui l’aterosclerosi e gli eventi tromboembolici; aumento della concentrazione di trigliceridi e colesterolo nel sangue, eccetera).
Stiamo parlando di queste patologie mortali. Non stiamo mica parlando di 15mila euro per danni per la perdita di valore degli immobili.  15mila euro per le Vittime: non è Giustizia! Ci si avvicinerà ad essa se le 200 persone, ma anche le migliaia non coinvolte nel processo penale concluso, chiederanno i danni per le patologie da ciascuna subìteMa questi danni devono chiederli per altra via che non sia quella penale, perché nel processo penale il reato contestato è di natura prettamente ambientale: l’avvelenamento delle acque e il disastro ambientale. Il penale è bengodi per gli avvocati, non per le Vittime.  Il penale non risarcisce i danni per la salute, nemmeno un briciolo di dignità.
Per risarcire i danni alla salute, la via obbligata è quella dei processi in sede civile: con azione legale individuale, oppure unendosi con azione legale collettiva (class action): tramite associazione di cittadini ovvero organizzazioni, riducendo così notevolmente i costi legali ai rari avvocati (e medici legali) disponibili a parcelle meno appetitose di quelle in sedi penali.
Dunque, chiunque ritenga di aver subito danni reali a causa dell’inquinamento da PFAS (cioè problemi di salute ma perfino perdita di valore degli immobili, ecc.) può intentare una causa civile contro i responsabili dell’inquinamento, a partire dalle aziende che hanno prodotto o utilizzato le sostanze PFAS. Il diritto vale innanzitutto per le popolazioni che hanno “ospitato” in passato l’industria produttiva, come la Miteni di Trissino, ovvero per quelle che tuttora la fabbrica ce l’hanno in casa, come la Solvay di Spinetta Marengo.
A maggior ragione, questo diritto ad un risarcimento non lesivo della dignità ce l’hanno i principali esposti ai veleni, le Vittime dirette: i lavoratori di queste fabbriche. Per paradosso, anzi assurdo, i lavoratori della Miteni non hanno ricevuto dalla sentenza di Vicenza nessun risarcimento. Neppure i 53 costituitisi parti civili l’hanno preso, nemmeno l’elemosina delle 15mila euro (per la motivazione, appunto, che la natura del reato contestato è… solo di natura ambientale, non professionale).
Dunque, l’unica sentenza -anch’essa storica- che risarcisce i lavoratori resta quella, di un altro tribunale di Vicenza, che in sede civile ha risarcito la morte per tumore di un operaio della Miteni: per la prima volta riconoscendo in Italia la malattia professionale da Pfas. Però, con questa sentenza non è stata condannata al risarcimento l’azienda ma un Ente terzo in causa: l’INAIL.
E’ clamoroso, anzi scandaloso, che in Alessandria i sindacati a loro volta non abbiano mai avviato causa di riconoscimento di malattie professionali contro il colosso chimico di Spinetta Marengo. In particolare, la polemica è stata anche trasmessa con lettera aperta al segretario generale della CGIL, Maurizio Landini.

Ci vorrebbe un secolo per ripulire la falda più inquinata d’Italia.

Non merita ulteriore commento l’indecenza delle attribuzioni di vittoria e delle autoassoluzioni di politici e amministratori… all’unanimità. Invece, la sentenza Pfas di Vicenza va a pieno ed esclusivo merito della popolazione che si è mobilitata.
 
Detto questo, la sentenza per quanto tardiva (e col cappio degli appelli) assume comunque valenza storica perché è la prima che condanna per dolo (pene fino a 17 di reclusione per i manager), cioè considera sul serio l’inquinamento come reato: cosciente e voluto. Storica benchè insufficiente per fare giustizia. La Giustizia non si realizza certo con i 50mila euro per organizzazioni ambientaliste o con i 25mila per i sindacati Cgil e Cisl. Mentre sarebbe fondamentale se assicurasse i massimi risarcimenti alle Vittime: le quali invece -in poche centinaia su centinaia di migliaia- sono state indennizzate con irrisorie 15mila euro.
 
L’altro aspetto nevralgico è la bonifica. “Chi inquina paga” è uno slogan ingannevole, soprattutto perchè ambiente e salute non sono riparabili. Eppoi, quando mai è successo che chi ha inquinato ha pagato la bonifica! Codesta è miliardaria. Chi la paga? chi e come e quando la realizza? Gli inquinatori? La Miteni che è fallita? Gli stranieri del lontano Giappone?  Il ministero dell’Ambiente, al quale è stato riconosciuto un indennizzo da 58 milioni? La Regione Veneto con i 6 milioni di euro di indennizzi? Con gli 844mila euro di indennizzo all’Agenzia regionale per l’ambiente del Veneto (Arpav)? Con i 151mila la Provincia e con gli 80mila euro ciascuno per i trenta Comuni della zona rossa?
 
La Regione Veneto ha già speso 2,8 milioni in filtri e nuove reti acquedottistiche e 3,5 milioni per finanziare Arpav. Mai finiti i monitoraggi ambientali. A cui si aggiungono i costi elevati dei monitoraggi sanitari per 350mila residenti, del dosaggio dei Pfas nel sangue, delle patologie di preeclampsia in gravidanza oltre che malformazioni alla nascita, cancro del rene e del testicolo e della tiroide, malattie cardiovascolari, colesterolo e funzionalità epatica eccetera.  A tacere i costi per le cure.
 
Secondo l’Arpav, ci vorrà un secolo per ripulire del tutto la falda più inquinata d’Italia. Le altre 16 Regioni già individuate da CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) e ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), sono Piemonte, Emilia Romagna, Lombardia, Toscana, Lazio, Campania, Friuli, Basilicata, Liguria, Umbria, Abruzzo, Puglia, Sardegna, Molise e Calabria.
Per sapere di più sulla storica sentenza del processo di Vicenza:

La storica sentenza come punto di partenza.

Dopo le sentenze storiche di Vicenza, in penale e in civile, un sacco di persone e di enti si sono appiccicate medagliette di pionieri della lotta contro i Pfas. Perfino alcune istituzioni pubbliche, che semmai avrebbero meritato nei decenni anch’esse un banco degli imputati, si sono autoassolte addirittura in veste di primazia politica e sanitaria. I meriti della vittoria vanno, invece, esclusivamente attribuiti alle lotte popolari dopo il 2017, con le “Mamme No Pfas” in testa. In questo ambito merita il riconoscimento che viene assegnato al dottor Vincenzo Cordiano in questo servizio del Corriere della Sera, clicca qui.
 
Nell’intervista, Cordiano giustamente rivendica di essere stato il primo in Veneto a lanciare l’allarme Pfas per la Miteni di Trissino nel 2013. Possiamo confermarlo perché all’epoca chiese informazioni a Lino Balza, noto per essersi occupato già dagli anni ’80 con le denunce dell’inquinamento Pfas in Bormida e Po, tant’è che lo mise anche in contatto (segreto) con tecnici della Solvay di Spinetta Marengo.
 
Vincenzo Cordiano giustamente accusa come non fu ascoltato dai politici e nemmeno dai suoi colleghi medici veneti, anzi fu sottoposto dai superiori a provvedimento disciplinare “per avere danneggiato l’immagine dell’azienda sanitaria Usl5”. Ovviamente fu censurato sul lavoro e bloccato come carriera. Il fatto non stupì, essendo già balzato all’onore delle cronache Lino Balza per anni oggetto di massicce rappresaglie del colosso chimico di Spinetta, licenziamento compreso, tutte respinte con vittoria nei tribunali però mentre gli amministratori pubblici piemontesi trattenevano le code tra le gambe.
 
Nell’intervista, Cordiano principalmente mette in rilievo che la storica sentenza di dolo del Tribunale di Vicenza debba essere -in Veneto- considerata non un punto di arrivo bensì di partenza: perché dovranno essere assolutamente perseguite le indagini ambientali ed epidemiologiche mancanti, soprattutto per riconoscere i danni alle Vittime e dunque i legittimi risarcimenti. Analogamente, il monito dovrebbe valere per il Piemonte. 

Giova ripeterlo: le Vittime non ottengono Giustizia nei tribunali penali.

 
Alessandria non è la sede penale per ottenere Giustizia, possibile solo con azioni inibitorie e risarcitorie. Qui, più che altrove, le Vittime rischiano di diventare Vittime una seconda volta. Si consuma drammaticamente il “delitto perfetto”….

In più, la partita dei Pfas va ben oltre la sentenza di Vicenza.

Ok limite zero Pfas in Italia quando in Usa. .
L’intera partita (clicca) si giocherà in campo internazionale, all’ombra militare di Trump. Senza eccedere in trionfalismi, come si sta facendo, nondimeno la storica “sentenza Miteni” del tribunale di Vicenza, al di là dell’esito giudiziario ancora provvisorio, ha acceso ulteriormente i riflettori sui Pfas: in particolare sulla necessaria fermata nell’unico stabilimento che li produce in Italia, Solvay a Spinetta Marengo, e sul relativo assai controverso processo (bis) di Alessandria.
 
Nell’immediato, indubbiamente la sentenza sta plasmando in Veneto nuove decisioni e nuovi indirizzi in materia ambientale. In questo scenario, a Schio l’assemblea dei soci di “Alto vicentino ambiente (Ava)”, che si occupa del ciclo integrato dei rifiuti del comprensorio, ha approvato una delibera in cui si stabilisce che, qualora si dovesse potenziare ed ampliare l’inceneritore di Ca’ Capretta, non sarà consentito trattare fanghi di depurazione, che   tipicamente contengono Pfas.
 
La gravità della minaccia degli impatti sanitari dei Pfas si è riflessa, quasi in contemporanea, sulla vicenda dell’inceneritore che Eni Rewind aveva in animo di realizzare a Fusina, alla periferia di Venezia, bloccato finalmente dopo anni di lotte dal Comitato tecnico della Regione Veneto proprio per la possibilità che i fanghi da bruciare potessero contenere i Pfas.
 
Insomma, in un contesto così tratteggiato, i Pfas «finiscono per essere il filo conduttore» che lega i destini di Trissino, di Vicenza, di Venezia, di Schio, di Padova, di Verona, di Legnago e di Loreo. Si tratta di Comuni nei quali o c’è un impianto di trattamento o è prevista la realizzazione di un inceneritore o il potenziamento di una linea di incenerimento, oppure è in previsione la realizzazione di un impianto ad hoc: vuoi di trattamento, vuoi di essiccazione. Si è aperto un nuovo approccio nella gestione dei rifiuti e dei fanghi contaminati da PFAS, in particolare rispetto ai rischi per la salute derivanti dalla combustione incompleta dei PFAS.
 
A maggior ragione dopo la sentenza di Vicenza, i Comitati e le Associazioni chiedono la messa al bando in Italia dei Pfas per Legge. Il che però implica la sorte dello stabilimento di Spinetta Marengo, ovvero degli interessi economici, militari e geopolitici in gioco, che sono tanto radicati e ramificati da rendere l’intera partita (clicca) un vero e proprio rebus non solo nazionale.  Clicca anche https://economiacircolare.com/pfas-industria-bellica/ i “forever chemicals indispensabili nel mercato della guerra”.
 
Lo scenario internazionale, infatti, si fa più torbido, e dentro vi nuota Solvay in Italia (vedi foto). In Usa, l’Epa, l’agenzia governativa per la protezione dell’ambiente, sembra fare marcia indietro nella lotta agli “inquinanti eterni”. Le misure portate avanti da Joe Biden erano state pianificate durante il primo mandato di Donald Trump, che anche in questo caso rinnega sé stesso. L’Epa ha prorogato l’entrata in vigore dei limiti per la presenza di queste sostanze chimiche nell’acqua potabile e ha cancellato oltre 15 milioni di dollari destinati alla ricerca. La soglia di 4 nanogrammi per litro, tecnicamente zero, stabilita dalla legge Usa passata sotto Biden, dovrà essere rispetta solo dal 2031.

Un altro dei tanti rinvii Pfas della Regione Piemonte.

Onde favorire la Solvay di Spinetta Marengo, unico stabilimento che produce “inquinanti eterni” in Italia, la Regione Piemonte, nel porre dei massimi di concentrazioni di Pfas nelle acque, aveva stabilito che limiti aggiuntivi per le sostanze pericolose sarebbero dovuti entrare in vigore quest’anno. Invece, la Regione ha rimandato di tre anni «per permettere agli impianti di depurazione di adeguarsi».  In questo periodo, il provvedimento, tramite un ennesimo  “Osservatorio”, consentirebbe agli enti locali, ai gestori e ai consorzi di riavviare il percorso di studio e approfondimento, anche per avviare soluzioni concrete e affrontare in modo sistemico il tema del trattamento dei rifiuti, in primis del percolato”.
 
Questa proroga regionale dell’entrata in vigore dei limiti Pfas si scontra con il pieno disaccordo degli ecologisti: “Si è partiti col limitare i Pfas nello smaltimento, ma per risolvere il problema bisogna impedirne la produzione e l’utilizzo. Il problema in Piemonte è gigantesco. Non si può non guardare l’elefante nella stanza: lo stabilimento di Spinetta Marengo”.

Fantascienza: i batteri che mangiano i Pfas.

Quand’anche lo stop di produzione e utilizzo dei Pfas fosse decretato oggi, i “forever chemicals” resterebbero indistruttibili negli ambienti e nei corpi umani (impiegano migliaia di anni per decomporsi) provocando gravi patologie come una ridotta fertilità, ritardi nello sviluppo infantile e rischi maggiori di tumori e malattie cardiovascolari eccetera. Per affrontare quel tragico futuro, gli scienziati stanno studiando batteri che siano in grado di fagocitare ed eliminare i Pfas. Ma questo ora è neppure immaginabile contro i Pfas insediatisi nel sangue e negli organi umani tramite inalazione e ingestione.
 
Un flebile spiraglio proviene da uno studio su animali di Ricercatori dell’Università di Cambridge che sono riusciti a identificare specie batteriche presenti naturalmente nel nostro intestino e in grado di assorbire diverse molecole di Pfas. Per testare questa loro abilità, il team le ha introdotte nell’intestino di alcuni topi per rendere il loro microbioma più simile al nostro. Dalle successive analisi è emerso che 9 ceppi di batteri hanno rapidamente accumulato i Pfas ingeriti dai roditori, che li hanno poi eliminati attraverso le feci. Come una sorta di spugna, infatti, i batteri li hanno assorbiti tra il 25% e il 74%, conservandoli al loro interno, in quello che in gergo tecnico viene definito come bioaccumulo.
 
Più batteri ingoi, più Pfas elimini?  Non è più salutare eliminare i Pfas a monte: in produzione e uso per padelle antiaderenti, cosmetici, indumenti impermeabili e imballaggi alimentari, eccetera?

Il nucleare: falsa promessa energetica del governo.

In questo momento storico, il ritorno al nucleare viene promosso dal governo come inevitabile, efficiente e moderno: il “Nucleare di nuova generazione” (in particolare gli Small Modular Reactors SMR) una tecnologia che sarà pronta tra il 2035 e il 2045, con investimenti di miliardi, costi incerti, tempi lunghissimi, insomma incapace di contribuire nel decennio cruciale della crisi climatica e geopolitica.
 
“Invece” ribadisce  Di Giovanni Ghirga, medico di ISDE ITALIA, “per questi strettissimi tempi climatici, esistono già soluzioni concrete, scalabili, mature: energie rinnovabili come il solare e l’eolico, ormai ampiamente competitive sul piano economico e rapidamente installabili; reti intelligenti in grado di bilanciare in tempo reale la produzione e il consumo, integrando anche piccoli impianti distribuiti sul territorio; accumuli distribuiti, come batterie domestiche e sistemi di stoccaggio a livello di quartiere o di distretto, i quali stabilizzano la rete e garantiscono continuità energetica; idrogeno verde prodotto con energie rinnovabili, essenziale per decarbonizzare i settori industriali più difficili, come la siderurgia e la chimica; infine, l’elettrificazione capillare, cioè la progressiva sostituzione dei combustibili fossili con tecnologie che funzionano a energia elettrica, come pompe di calore, veicoli elettrici, impianti elettrici per serre e irrigazione, alimentate però da fonti rinnovabili nei settori del riscaldamento, dei trasporti e dell’agricoltura”.
 
Di contro, inoltre, ogni reattore è un potenziale bersaglio in un mondo dove i conflitti ibridi, i droni kamikaze e i cyberattacchi sono ormai strumenti ordinari di pressione geopolitica, con rischio potenziale di contaminazione radioattiva permanente dell’aria, del suolo, dell’acqua. Anche i reattori più “avanzati” non eliminano il problema delle scorie radiotossiche per decine di migliaia di anni: ancor   più voluminose e più reattive sul piano chimico e fisico, con implicazioni serie per lo stoccaggio e il confinamento.
 
Infine, si instaura anche una dipendenza geopolitica nessun Paese europeo è autosufficiente nell’estrazione o nella lavorazione dell’uranio. Inoltre, i Paesi fornitori, come Russia, Kazakhstan, Niger, Algeria, non offrono garanzie di stabilità o alleanze democratiche. Spostano semplicemente la dipendenza dal gas a un’altra fonte instabile … e la chiamano “indipendenza”.

Genova rischia di diventare un obiettivo sensibile dal punto di vista militare.

Il Ponte sullo Stretto, per anni venduto come un progetto di grande progresso civile, verrà fatto rientrare tra le spese militari. In caso i russi attaccassero la base Nato di Sigonella da Tripoli via Mar Nero e Turchia, le nostre truppe si paracaduteranno sul ponte, visto che non è consigliabile percorrere coi carri armati la Salerno-Reggio Calabria né tantomeno usare la linea ferroviaria.
Non ci sarà solo il ponte sullo Stretto, anche la nuova diga foranea del porto di Genova -mega-opera da 1,3 miliardi (già lievitati a 1,6 coi lavori nemmeno arrivati al 10%)- contribuirà a coprire le spese militari che l’Italia s’è impegnata in sede Nato a portare al 5% del Pil entro il 2035, una quota delle quali (1,5%) potrà essere rappresentata da infrastrutture a valenza anche militare.
 
“È un’infrastruttura ‘dual use’. Progettata per scopi mercantili, in caso di crisi (bellica) sarà utile perché consente lo sbarco di portaerei leggere, navi Nato e strumenti e truppe”, ha spiegato Carlo De Simone, sub-commissario all’opera (il titolare è Marco Bucci presidente della Regione Liguria), durante una trasmissione tv. Poco importa che le più grandi portaerei Nato abbiano dimensioni assai inferiori a quelle delle portacontainer abituali ospiti delle banchine genovesi e che quindi potrebbero comodamente approdare sotto la Lanterna senza spendere miliardi di euro per la diga. Neanche a La Spezia, a 50 miglia nautiche, abbia sede una delle maggiori basi della Marina militare.
Il dual use, potenziale viatico di nuovi esborsi e opacità, farà di Genova un obiettivo sensibile dal punto di vista militare.

Alternanza scuola lavoro e infortuni.

La relazione annuale dell’Inail conteggia gli infortuni sul lavoro nel 2024 relativi agli studenti che si trovavano in ambito Pcto, i percorsi di «competenze trasversali per l’orientamento», l’acronimo sotto cui è stato celato il precoce inserimento nel mercato del lavoro per gli studenti. 2.100 sono state le denunce, di cui uno ha avuto esito mortale.
 
“È evidente che sono percorsi di formazione a un mondo del lavoro precario e insicuro, di cui si può morire. Il governo non ha mosso un dito, l’unica cosa che ha fatto è stato il decreto primo maggio del 2023, che ha semplicemente normalizzato e preventivato che ci si potesse infortunare e morire. Anzi,  ha esteso i percorsi agli studenti degli istituti tecnici e professionali a partire dai 15 anni. I Pcto vanno aboliti, vanno eliminati l’obbligo e i monte ore prefissati”: denunciano la Rete degli studenti medi e la CGIL.