Cosa non si fa per soldi. L’omertà delle testimoni al processo Solvay

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“Io le arresterei” ha mormorato il pubblico nell’aula del Tribunale di Alessandria. Ma la Presidente della Corte di Assise, con abbondante equilibrio, non ha dato questa soddisfazione. Così sono state portate a termine, nell’udienza del 13 maggio, le testimonianze di Caterina Di Carlo e Valeria Giunta, che pur avevano giurato di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità.


Caterina Di Carlo, con tutti i suoi “Non so”, “Non ricordo”, è stato battezzata “la smemorata di Spinetta”, surclassando il famoso “smemorato di Collegno”. Facendo suo il proverbio, la colta “ingegnere ambientale” di collegamento fra l’imputato Canti e il quartier generale di Bruxelles ha preferito passare da ignorante piuttosto che da brigante, a giustificare così l’elevato livello retributivo. A scuola, a forza di insistere a insegnarle ingegneria ambientale, le avevano fatto odiare l’ambiente.

Valeria Giunta, la “gola profonda” delle intercettazioni telefoniche, in aula è diventata afona. Al telefono, nel 2008, gridava che “sono veramente bastardi”, “io non voglio finire in galera”, “vi metto nella merda più totale”. In aula non ha rivelato quali segreti minacciava i suoi capi di voler svelare, e in cambio di che cosa. Ma bastano e avanzano le intercettazioni riprese dal pubblico ministero Riccardo Ghio, per qualificare la responsabile del laboratorio aziendale stretta collaboratrice degli imputati. Quando l’imputato Canti la induceva a “non scrivere quel risultato compromettente” o le ordinava analisi (pozzo 8, spacciato per potabile) in doppia versione, una per l’interno e l’altra falsa per gli Enti esterni. Quando scriveva sul diario (sequestrato dai carabinieri) che il cromo era stato nascosto sotto bitume e cemento. Quando compativa gli operai che erano costretti ad effettuare le analisi senza strumenti protettivi: “Io se fossi l’operatore, li denuncerei”. Quando discuteva come “distruggere i tabulati analitici” o consegnava i dati sensibili tramite chiavetta pen drive piuttosto che via e-mail “perché non restasse traccia”, quei dati che definiva “fuori dal mondo” mentre all’esterno “è sempre stato detto che tutto va bene”, i dati magari di un anno prima spacciati per l’anno dopo (1968). Quando gli avvocati difensori la invitavano a distruggere la relazione in mail dopo l’interrogatorio del Pubblico Ministero. Anche da questa udienza, la Giunta sarà uscita convinta di esclamare di nuovo: “Ho praticamente salvato la società Solvay”. Mi sa che la Corte sia invece del nostro avviso.
Interessanti saranno eventualmente le deposizioni degli interlocutori da lei citati nelle intercettazioni telefoniche: l’”orsone” Gianni Pasero, il fidato Giuseppe Merlassino detto Pino, l’odiata Patrizia Maccone, Stefano Albera, Fulvio Gualco, Marco Contino, Paolo Bessone, Bruno Lagomarsino, “quel deficiente di Panaro”, “quell’incapace” del direttore Stefano Bigini, Luigi Guarracino, Allegreschi, Lodone, Girolomoni, Giancarlo Vasori, Marco Colatarci, avv. Bagnoli, Giuseppina Pavese dell’Arpa eccetera.